Sono in cura psichiatrca da circa 10 anni. E la mia diagnosi, all’epoca, andava di moda come le All Star o la Coca-Cola.
“Disturbo borderline di personalità’”.
Bastava vestirsi un pò strani, essere un pelo confusi e farsi qualche taglio sulla pelle per essere etichettati border.
In alcune Cliniche Psichiatriche ci si presentava prima “border” e poi, forse, con il proprio nome.
Creava gregge, faceva gruppo, e purtroppo drammaticamente figo.
Eppure era ed è una patologia.
Seria, invalidante, dolorosa.
All’inizio son stata contagiata dal trend, lo ammetto. Mi sentivo con una marcia in più.
Matta sì, ma almeno originale.
Oggi non so se riderne o piangerne.
Sicuramente c’è bisogno di rifletterci tutti un pò.
La diagnosi è uno strumento, si sa.
Una linea guida per aiutare e curare la persona.
Ma “The Dark Side Of The Moon”?
Bè, c’è eccome. E si chiama stigma, bollo, marchio a fuoco.
Un tatuaggio che non va più via.
Neanche se guarisci. Neanche se ti affranchi.
Quella parola ti insegue per tutta la vita e si insinua dentro a voler far parte della tua identità.
Ti rincorre al lavoro, nelle relazioni sociali, familiari ed affettive.
Ma soprattutto ti perseguita la mente.
Sono Chiara o sono una borderline?
Sono libera o sono in catene?
La gente per strada si accorgerà del marchio in fronte?
E cos’ho di davvero diverso dai famosi Altri Da Me?
A trentadue anni lo so.
L’anima, non una parola.
Il carattere, non una patologia.
La peculiarità del mio essere, non una diagnosi.
Ma ancora a volte il ritornello rimbalza in testa.
Soluzioni? Forse solo una.
Addetti ai lavori: non abbiate fretta di diagnosticare.
La vita vera è più dura, più ricca, più bella e più complessa di una parola che certamente non sarà mai nè la mia , nè la vostra migliore linea guida. (Chiara L.)
DIAGNOSI O STIGMA?
Psichiatria, Società e vita vera.
Sono in cura psichiatrca da circa 10 anni.
E la mia diagnosi, all’epoca, andava di moda come le All Star o la Coca-Cola.
‘’Disturbo borderline di personalità’’.
Bastava vestirsi un pò strani, essere un pelo confusi e farsi qualche taglio sulla pelle per essere etichettati border.
In alcune Cliniche Psichiatriche ci si presentava prima “border” e poi, forse, con il proprio nome.
Creava gregge, faceva gruppo, e purtroppo drammaticamente figo.
Eppure era ed è una patologia.
Seria, invalidante, dolorosa.
All’inizio son stata contagiata dal trend, lo ammetto. Mi sentivo con una marcia in più.
Matta sì, ma almeno originale.
Oggi non so se riderne o piangerne.
Sicuramente c’è bisogno di rifletterci tutti un pò.
La diagnosi è uno strumento, si sa.
Una linea guida per aiutare e curare la persona.
Ma “The Dark Side Of The Moon”?
Bè, c’è eccome.
E si chiama stigma, bollo, marchio a fuoco.
Un tatuaggio che non va più via.
Neanche se guarisci. Neanche se ti affranchi.
Quella parola ti insegue per tutta la vita e si insinua dentro a voler far parte della tua identità.
Ti rincorre al lavoro, nelle relazioni sociali, familiari ed affettive.
Ma soprattutto ti perseguita la mente.
Sono Chiara o sono una borderline?
Sono libera o sono in catene?
La gente per strada si accorgerà del marchio in fronte?
E cos’ho di davvero diverso dai famosi Altri Da Me? A trentadue anni lo so.
L’anima, non una parola.
Il carattere, non una patologia.
La peculiarità del mio essere, non una diagnosi.
Ma ancora a volte il ritornello rimbalza in testa.
Soluzioni? Forse solo una.
Addetti ai lavori: non abbiate fretta di diagnosticare.
La vita vera è più dura, più ricca, più bella e più complessa di una parola che certamente non sarà mai nè la mia , nè la vostra migliore linea guida.
Chiara Lambrocco
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